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articolo di Martina Ginosa e Laura Graziano
Il tennō, letteralmente “sovrano celeste”, è una figura religioso-politica peculiare del Giappone, diversa da tutte le figure di potere della storia occidentale. Le origini di questa carica si perdono tra gli antichi miti shintoisti e la storia del Giappone degli albori. Probabilmente il potere imperiale fu un’evoluzione dell’autorità che detenevano i capi dei clan (uji) in cui era divisa la società giapponese; figure tra la religione e la politica, capi sciamani rivestiti di autorevolezza grazie alle loro capacità sociali, diplomatiche e in virtù di un presunto collegamento con il mondo degli spiriti, che permetteva loro di comunicare con i kami (gli dei e spiriti della tradizione shintoista).
Tra i diversi uji che all’epoca popolavano il Giappone, uno in particolare acquisì potere e prestigio a partire dal IV secolo d.C. circa: il clan Yamato. Questo prestigio era dovuto sia alle abilità commerciali e diplomatiche che lo contraddistinguevano nelle relazioni con l’estero, sia a una crescente attenzione che dedicò all’aspetto militare. Una svolta decisiva nell’acquisizione del potere da parte del clan Yamato fu la decisione dell’imperatore Tenmu (regno 672-686) di commissionare la raccolta di antichi miti shintoisti in un’opera nota come Kojiki (“cronaca di fatti antichi”); opera chiave per legittimare il potere dei regnanti del clan. Il mito infatti indica Jinmu tennō, primo leggendario imperatore Yamato, come nipote della dea del sole Amaterasu.. Affermare la sua ascendenza divina significava attribuire a tutti i tennō lo status di kami (dio) vivente e legittimare il potere della stirpe Yamato in virtù della sua progenie divina; una mossa ovviamente non scevra da finalità politiche.
Il valore simbolico della figura imperiale tuttavia non coincise con l’ottenimento di un potere politico assoluto da parte del tennō; in questo forse consiste la peculiarità e la specificità storica di questa figura rispetto a monarchi ed imperatori in Occidente. Il tennō necessitava dell’appoggio dei clan più potenti, senza il quale il suo potere sarebbe stato debole e limitato; dunque doveva essere abile a conferire cariche e titoli nobiliari a chi avrebbe potuto costituire una minaccia alla sua supremazia. Diversi clan potenti (tra cui possiamo citare il clan Soga e il clan Fujiwara) si alternarono nel corso della storia nello stabilire alleanze matrimoniali con membri della famiglia imperiale, trovandosi spesso a detenere il potere de facto. Possiamo anche notare l’esistenza di numerose cariche di persone “a lato” dell’Imperatore, che detenevano il potere e che, agendo in secondo piano, riuscivano a perseguire i propri interessi, come la carica di “reggente” o di “imperatore in ritiro”.
Il potere del tennō dunque, lungi dall’essere assoluto, si reggeva su alleanze strategiche e matrimoniali e sulla capacità di mantenere i giusti rapporti politici; tuttavia spesso si dimostrò essere una carica “vuota” di potere, come dimostra ad esempio l’abitudine di intronizzare imperatori neonati o molto giovani.
Nel lungo periodo della storia giapponese noto come bakufu (1192-1867) vi fu una vera e propria divisione tra il potere politico e il potere simbolico. Alla fine del XII secolo, in seguito a una guerra civile, prese potere Minamoto Yoritomo attribuendosi il titolo di shōgun, una carica dell’esercito; dal suo potere militare scaturì il potere politico, in quanto tutti i territori del Giappone vennero divisi tra i vassalli, che li amministravano. Nel corso dei secoli questo sistema di gestione amministrativa e politica divenne sempre più strutturato e le figure dei vassalli divennero emanazioni dirette del potere dello shōgun, prendendo il nome di daimyō. Lo shogun aveva così di fatto il controllo e la supremazia sui territori: il suo potere aveva la legittimazione dell’Imperatore, che tuttavia era puramente formale.
Il tennō e la sua aura divina giocarono tuttavia un ruolo fondamentale a partire dal 1868; in quell’anno, una serie di disordini interni esacerbati da contatti con l’esterno, culminarono in una rivolta di alcuni daimyō che rovesciarono lo shogunato, sancendo l’inizio dell’era Meiji. Il loro obiettivo era porre fine al bakuhan[1] e riunificare il Paese sotto un unico potere centrale; scelsero di restaurare il potere imperiale, in quanto il tennō era una figura culturalmente familiare e latente nell’immaginario del popolo giapponese. I valori necessari a creare una popolazione di sudditi, la cui fedeltà fino a quel momento era andata ai daimyō locali, furono espressi nella dichiarazione imperiale nota come “Rescritto imperiale sull’educazione” (1890) , nella quale si esaltavano i valori confuciani di lealtà verso i superiori e pietà filiale verso i sottoposti[2]. La figura dell’Imperatore si rivelò dunque efficace nell’unificare culturalmente una popolazione fino ad allora frammentata, ma ancora una volta il suo ruolo fu prevalentemente simbolico, in quanto il reale governo del Paese era in mano ai capi dei clan che avevano rovesciato lo shogunato. L’assetto del potere nel periodo Meiji era dunque simile ad un’oligarchia, più che ad una monarchia. La Restaurazione del potere imperiale, piuttosto che un’operazione atta a riportare il potere effettivo nelle mani del tennō, era stata una strategia politica degli oligarchi Meiji per rendere il Giappone simile agli Stati-nazione europei, unificato politicamente e culturalmente. In quel periodo infatti nacquero anche i concetti di kokutai (corpo nazionale) e kazoku kokka (Stato-famiglia), di cui il tennō era il simbolo e il capo.
Rendere il tennō oggetto di venerazione era stato possibile anche grazie alle antiche credenze sulle origini divine del clan Yamato, che avevano abituato la popolazione a considerare l’Imperatore come un kami vivente. Il governo era riuscito a rendere il tennō, gli dei e lo Stato giapponese oggetto della stessa adorazione.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale si ebbe un ridimensionamento del ruolo e della presunta origine divina dell’Imperatore, in particolare dopo il “Rescritto imperiale sulla costruzione di un nuovo Giappone” noto anche come “Dichiarazione di umanità”, che secondo alcune interpretazioni nega l’ascendenza divina dell’Imperatore, dichiarando che il legame tra l’Imperatore e i suoi sudditi non si basa su miti e leggende bensì su fiducia e affetto reciproco[3].
Fonti:
R.Caroli, F.Gatti, Storia del Giappone, Laterza 2006
F.Mocati, L’élite giapponese, edizioni ASG 2019
S. Vecchia, Giappone: l’antica terra dei samurai proiettata nel futuro, Polaris 2008
[1] Nome della sistema politico-amministrativo tra il 1603 e il 1868: il governo shogunale era detto bakufu e il territorio era diviso in feudi chiamati han.
[2] Testo originale in inglese: www.japanpitt.pitt.edu/glossary/imperial-rescript-education