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paubhā collezione Ghiringhelli (1970-80)
articolo e foto di Gemma D'Alessandro
Il paubhā che qui possiamo ammirare è realizzato dall’artista Roshan Shakya (1960) uno dei più autorevoli maestri della Newar Revival School, nata nel secolo scorso per riprendere e far rifiorire lo stile dei paubhā antichi, che si svilupparono in Nepal tra il XIV e il XVIII secolo. Il risultato della rivisitazione, come si vede da questo dipinto, è splendido sia per i colori, che si mantengono brillanti con l’uso dei pigmenti naturali, sia per la cura e pulizia dei dettagli con cui sono ritratte le divinità e tutti gli altri motivi della composizione.
Il soggetto principale qui è Buddha Amitāyus, il Buddha della Lunga Vita , rappresentato al centro nella tipica tonalità rosso gialla (“del sole che sorge”) e seduto su un disco lunare nella posizione del loto. Dal punto di vista buddista ci si augura una lunga vita per la propria salvezza e per la salvezza di tutti gli esseri, perché l’esperienza della vita è considerata preziosa per progredire sul sentiero verso la Liberazione. Riti di offerta ad Amitāyus vengono celebrati in particolare a favore dei maestri, perché possano con la loro presenza continuare a guidare gli altri. Il Buddha Amitāyus si distingue dal Buddha Amitābha (“della Luce Infinita”), a cui è associato, perché - al posto della ciotola dell’elemosina e degli abiti da monaco - regge tra le mani l’ampolla che custodisce il nettare dell’immortalità ed è adornato con gioielli e drappi preziosi, attributi tipici dei bodhisattva . In basso troviamo rappresentate, con la stessa grazia e ricchezza di particolari, le due divinità femminili Tārā Bianca e Uṣṇīṣavijayā, rispettivamente alla sinistra e alla destra di Amitāyus. Tārā, personificazione della compassione, è caratterizzata da sette occhi, il terzo tra le sopracciglia e gli altri quattro nelle palme delle mani e nelle piante dei piedi: i sette occhi aiutano la dea a proteggere gli esseri viventi su ogni piano dell’esistenza. Nella forma qui rappresentata, come Tārā Bianca, la dea è invocata per le pratiche che rimuovono le malattie e ogni ostacolo alla lunga vita. Anche Uṣṇīṣavijayā, “Corona Vittoriosa”, è tra le divinità più importanti per la lunga vita e, inoltre, è legata alla purificazione dalle azioni malvagie, originate dal veleno mentale della falsa conoscenza. Uṣṇīṣavijayā ha tre facce (gialla a destra, bianca al centro e blu, un po’ irata, a sinistra) e otto braccia, che rappresentano i mezzi abili, upāya: la mano di destra sul cuore porta un vajra, simbolo della saggezza, la seconda a destra dall’alto regge un loto su cui siede Buddha Amitābha, la terza mano a destra una freccia e la quarta a destra in basso è nella mudrā del dono. La mano di sinistra in grembo tiene sempre il vajra, la seconda a sinistra un arco, la terza è nel gesto che allontana la paura. L’ultima mano, sotto la prima, tiene un vaso con l’elisir di lunga vita. Secondo una leggenda himalayana il culto della dea Uṣṇīṣavijayā nasce da una vicenda che coinvolge Indra, il re degli dei vedici. Un uomo si era rivolto a Indra per sfuggire alla terribile sorte di reincarnarsi come maiale, ma Indra nemmeno poté aiutarlo e perciò lo incitò a rivolgersi al Buddha Śākyamuni. Il Buddha stesso insegnò all’uomo il mantra da rivolgere a Uṣṇīṣavijayā, con l’ardente desiderio di rimuovere gli effetti delle proprie azioni negative: la recitazione del mantra fu così potente che riuscì a risollevare le sorti dell’uomo, il quale poi nacque come essere celeste e non come maiale.
La triade Buddha Amitāyus, Tārā Bianca e Uṣṇīṣavijayā è antica ed è molto popolare in tutte le scuole del buddismo vajrayāna, invocata ancora oggi nei riti pubblici e privati di iniziazione e lunga vita, a favore di sé stessi e degli altri. Sin dai tempi antichi quando un bambino veniva riconosciuto come l’incarnazione di un lama, ovvero di un grande maestro, la sua famiglia commissionava un grande dipinto con queste tre divinità, allo scopo di proteggere il bambino dagli influssi maligni.
In questo paubhā ritroviamo uno degli esempi più alti della Newar Revival School, dove temi classici vengono riproposti con tratti moderni nel rispetto delle proporzioni e della ricchezza di significati e simboli. Da notare la firma dell’autore, apposta in bianco nella scrittura devanāgarī, sul bordo inferiore rosso del dipinto.
Dalla preghiera rivolta ad Amitāyus:
Oh, protettore Amitāyus, nato dalla sillaba Hrih
Su un disco lunare e su un loto da mille petali
Dal colore vermiglio del sole giovane che sorge
Coperto da un piacevole velo rosso-giallo.
Mi inchino a te, dal corpo reso bellissimo
Dai drappi e dagli ornamenti di gioielli
Come una montagna di rubino
Tutto ricoperto dai raggi del sole.
Mi inchino a te che ci concedi di raggiungere lo scopo della vita
Da una coppa ripiena fino all’orlo del nettare dell’immortalità
Che tu reggi al centro tra le tue due mani
Le braccia sinuose come rami di un albero.
Mi inchino a te per tutto il tempo,
Chiamando soltanto il tuo nome la morte prematura è sconfitta.
Chiamandoti mentalmente noi siamo protetti dalle paure dell’esistenza ciclica e
Prendendo rifugio in te
La pace e la durevole felicità ci vengono concessi.
Con devozione mi affido a te che sei libero e privo di difetti.
Possano tutti i pericoli indesiderati temporaneamente essere pacificati
E infine che io possa nascere spontaneamente
Da un loto nella Terra della Gioia e fare ciò che tu vorrai.
Onorandoti con una mente pura,
Con il potere di pregarti con ferma devozione,
Che possano tutte le malattie, gli spiriti e tutti gli ostacoli essere pacificati
E infine che io possa gioire dello scopo della vita senza morte.
Conferiscimi di conseguire progressivamente
le buone qualità dei tre insegnamenti,
La saggezza pura dell’ascolto, della contemplazione e della meditazione
sulla compassione, sui meriti e sulla vita.
Quando vedrò i segni della morte inattesa
Che io possa vedere immediatamente e chiaramente il corpo del protettore Amitāyus
E avendo distrutto il Signore della Morte
Che io possa raggiungere l’immortalità.
(trad. da “Images of Enlightenment”, di J. Landaw e A. Weber)