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Il saggio è dedicato a una delle più affascinanti leggende dell’ebraismo: quella di Enoch, già citato nella Genesi in relazione al suo rapimento divino (“Poi... non fu più perché Dio l’aveva preso”), ed esaltato nella vasta letteratura posta sotto il suo nome come depositario d’un sommo sapere celeste. Oltre a risiedere nell’Eden e a fungere da mediatore fra le dimensioni inferiori e superne, Enoch compì viaggi agli estremi confini della terra e del cosmo. Visitò così meravigliosi reami paradisiaci e monti di gemme, e poi ancora gli scrigni delle stelle, le porte del firmamento e i sentieri degli angeli, fino ad ascendere in sogno ai palazzi della dimora divina. Attraversato il primo, di candore niveo e col tetto scintillante di meteore e folgori, vide stagliarsi al suo interno come in uno schema mandalico il secondo; che interamente materiato di luce ospitava il trono della gloria, oggetto supremo di contemplazione mistica.
Tutto ciò è narrato nel Libro di Enoch o Enoch etiopico, celebre apocalisse apocrifa giudaica le cui sezioni più antiche risalgono al III secolo a.C. In seguito, suggestive elaborazioni del racconto confluiscono in un ulteriore apocrifo, l’Enoch slavo, probabilmente composto agli inizi dell’era volgare. Ma è nella fase più tarda, rappresentata dall’Enoch ebraico (V/VI secolo), che la quasi millenaria parabola delle tradizioni fiorite intorno al patriarca tocca l’apice della glorificazione e dell’empito fantastico: tale testo hekalotico descrive infatti la stupefacente metamorfosi di Enoch, asceso al settimo cielo, in una creatura di luce e di fiamma − Metatron, il primo fra gli angeli.