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fonte: ytali.com
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Il mondo in un ventennio è cambiato radicalmente e anche i talebani lo sono, forse non quanto vorremmo, ma lo sono. Siamo noi, invece, a non essercene accorti. Siamo noi ad essere rimasti al 2001.
18 agosto 2021 articolo di Piergiorgio Pescali
Proponiamo quest'articolo, già pubblicato sul sito Ytali , per gentile concessione dell'autore, che collabora con noi da molti anni
Tra il luglio e l’inizio settembre del 2001, pochi giorni prima dell’attacco alle Torri Gemelle, ero in Afghanistan, il cui governo allora era in mano ai Talebani del Mullah Omar. Avevo girato l’intero Paese con loro visitando Herat e andando anche a Kandahar, la loro capitale spirituale e il vero quartier generale del movimento. Sapevano che, dopo essere stato nelle zone controllate da loro, sarei andato nella valle del Panshir, il baluardo delle forze di resistenza antitalebana. Mi avevano dato anche delle lettere da consegnare ad alcuni amici-parenti-conoscenti situati dalla parte opposta della barricata.
A differenza dell’Alleanza del Nord di Massud, i legami tra i Talebani e il Pakistan erano fortissimi. Del resto, dovevano proprio a Benazir Bhutto (sì, la prima ministra tanto esaltata qui in Europa come paladina dell’emancipazione femminile in Pakistan) la loro nascita e il loro sviluppo. Era stata lei a volere la nascita del movimento degli studenti (taliban significa studente) e fu lei a finanziarlo e ad appoggiarlo politicamente per legare l’Afghanistan con un cordone ombelicale al Pakistan in funzione antindiana e antirussa.
Le condizioni delle donne nelle aree pashtun (quelle dove i talebani godevano il maggiore appoggio sociale) erano terribili, ma era chiaro che la loro sottomissione al maschio e il loro stile di vita non erano dovuti solamente alla dottrina islamica imposta dal governo. Erano piuttosto il risultato di una storia e di una cultura che affondava le proprie radici in un complicato sistema di rapporti etnici e di un delicato equilibrio sociale che governava tutti i più piccoli meandri della vita religiosa e famigliare. Vista con gli occhi di un occidentale questo insieme di precetti etici e morali erano inaccettabili, ma era chiaro che, senza un drastico cambio di mentalità culturale, nessuna legge avrebbe potuto cambiare la situazione.
E così è stato. I titoloni dei giornali all’indomani dell’11 settembre 2001 e, ancora più, dopo lo sbarco del primo soldato USA in territorio afghano davano la piena dimostrazione di quanto ingenui fossero i giornalisti, specialmente quelli che appoggiavano l’intervento NATO in Afghanistan.
Si parlava chiaramente di voler dare al popolo afghano un nuovo governo, una democrazia (do you remember, Mr. Biden?). Si tirava in ballo la necessità di una guerra santa contro la guerra santa islamica (il jihad). Se i Talebani combattevano per Allah i soldati della NATO partivano benedetti dal mantra “God Bless America”.
Una giornalista della CNN in arabo e un capo talebano
(fonte: ytali.com )
Per convincere i più secolari europei della giustezza della guerra (il riferimento alla guerra santa di Bush ricordava troppo le nostre crociate), molti giornali nazionali e opinionisti in radio e in tv spiegavano che era nostro preciso dovere andare in Afghanistan e liberare le donne dalla schiavitù del burqa.
Dimostrando di non aver capito nulla dell’Afghanistan, della sua cultura e del suo popolo.
Secondo questi soloni, dalle armi sarebbe scaturita una nuova legge che avrebbe consentito alle donne di costruirsi una propria vita liberandosi dal gioco maschile.
Peccato che, quando l’Afghanistan fu liberato dagli afghani filopakistani che lo governavano mettendo al loro posto afghani filooccidentali, le donne (con l’eccezione di Kabul e di qualche altra città del nord) continuarono a indossare il burqa, a essere escluse dalle scuole e dalla vita sociale.
Il burqa, simbolo più evidente dell’asservimento femminile, le donne pashtun l’indossavano non perché costrette, ma perché era ormai diventata una tradizione secolare. Era un simbolo che le differenziava dalle altre culture, in una nazione dove l’appartenenza etnica è molto più importante di quella nazionale.
Oggi i Talebani sono tornati al potere. In poche settimane hanno sbaragliato un esercito afghano che, stando alle parole di Biden, avrebbe invece dovuto essere in grado di difendere la nazione. Così non è stato, ma la colpa non è da attribuirsi solo alla disorganizzazione e alla defezione in massa dei soldati: il governo afghano filoccidentale, corrotto e diviso nel suo interno, non è mai stato in grado di proporre una valida controproposta che fosse veramente nazionale ai bisticci etnici dei deputati che compongono l’Assemblea nazionale.
Inoltre, se i talebani sono riusciti a riconquistare il potere in così poco tempo, significa anche che hanno il sostegno di una percentuale considerevole della popolazione (pashtun). Un fatto sicuramente scomodo da accettare in Occidente, dopo due decenni di permanenza delle truppe e miliardi di dollari e di euro spesi “per permettere alle donne di togliersi il burqa”.
Infine, i talebani di oggi non sono quelli del 2001. La loro dirigenza è cambiata, hanno intensificato i rapporti diplomatici con l’esterno, hanno dialogato con gli stessi Stati Uniti e con la Cina. Gli studenti si sono spostati dalle madrase alle università internazionali. Hanno studiato in Europa, in Estremo Oriente, sono entrati in contatto con altre culture e altre religioni, compreso l’ateismo; conoscono le sfaccettature dell’arte diplomatica, sanno che la sharia deve conformarsi agli inevitabili cambiamenti sociali se questa volta vogliono sopravvivere a loro stessi.
Il mondo in vent’anni è cambiato radicalmente e anche i talebani lo sono, forse non quanto vorremmo, ma lo sono. Siamo noi, invece, a non essercene accorti. Siamo noi ad essere rimasti al 2001.
Piergiorgio Pescali, ricercatore scientifico, il suo lavoro lo porta a viaggiare per il mondo collaborando con radio, riviste, quotidiani in Europa e Asia. Sudest Asiatico, penisola coreana e Giappone sono le zone che segue con più interesse. Frequenta regolarmente la Corea del Nord dal 1996 e sul paese ha scritto un libro “La nuova Corea del Nord, come Kim Jong Un sta cambiando il Paese” (Castelvecchi, 2019). Ha inoltre pubblicato “Indocina” (Emil, 2010), “Il custode di Terrasanta. Un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa” (Add, 2014), “Nella prigione di Pol Pot” (La Ponga, 2015).
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